Fondazione Spinola-Banna per l'arte
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Mostra annuale 2010

La Fondazione Spinola Banna inaugura domenica 24 ottobre alle ore 12 la Mostra annuale 2010, a cura di Benjamin Weil, con opere di Andrea De Stefani, Valentina Roselli, Caterina Rossato e HR Stamenov.


MOSTRA ANNUALE 2010
a cura di Benjamin Weil

Andrea De Stefani
Valentina Roselli
Caterina Rossato
HR-Stamenov

Nel 1975, al ritorno da un lungo viaggio nell’ovest degli Stati Uniti, Umberto Eco ha pubblicato Viaggi nell’iperrealtà. Questo saggio ha fissato il concetto di iperrealtà come la dimensione in cui non esiste più distinzione tra originale e copia, o duplicato, o in cui decadono le usuali nozioni di vero e falso – che implicano una gerarchia tra gli oggetti . Anzi, talvolta il falso è più “reale” dell’originale, se si tiene conto del contesto/o del clima culturale in cui è collocato, e in relazione all’esperienza che se ne può fare. Prendendo spunto da queste considerazioni, si potrebbe dire che, dal momento che nella nostra società post-industriale non si può più parlare di originale e di duplicato, forse c’è bisogno di ridefinire anche la nozione di rappresentazione.
In effetti la nozione di realtà è diventata sempre più complessa, via via che sono comparse nuove possibilità di duplicazione virtuale. Tempo e spazio rispondono a nuovi parametri, mentre oggi è possibile comunicare e scambiare esperienze in forme molto più varie, che implicano si ridefinisca continuamente il significato di parole come “ora”, “poi”, “qui” e “là. Sempre più le persone si conoscono e rimangono in contatto tra loro senza essersi mai incontrate in un luogo fisico “reale”. Eppure, capita che la loro relazione sia pù profonda di quella tra due vicini che si incrociano tutti i giorni sulle scale di casa. Allo stesso modo, si può essere più consapevoli di cosa succede a mille chilometri di distanza che non di quanto accade sotto casa, così come, ad esempio, è interessante pensare che nessuno sappia nulla delle abitudini criminali del proprio dirimpettaio fino a quando non ne trova notizia su un giornale, insieme al resoconto di un summit internazionale o all’annuncio di una catastrofe naturale avvenuta sull’altro lato del pianeta.
Il concetto di iperrealtà può dunque essere un utile strumento per descrivere quel momento della cultura in cui l’arte può essere più “reale” della realtà alla quale fa riferimento. Con lo sviluppo di una pratica artistica che non si fonda più soltanto sulla attenta osservazione del mondo e sulla realizzazione di un’immagine che cerchi di rappresentarlo, anche la relazione tra arte e vita si è trasformata. Certo, già più di cento anni fa Oscar Wilde scrisse che “La vita imita l’arte”, ma è stato il Ventesimo secolo a mostrare che questo suo celebre aforisma era qualcosa più di una semplice profezia. Con la fine del Novecento gli artisti hanno chiaramente scelto di rapportarsi al processo creativo concentrandosi sugli aspetti intenzionali e relazionali più che sulla produzione di manufatti frutto della padronanza di tecniche specifiche. L’ambito concettuale e formale che definisce lo specifico delle arti visive si è notevolmente allargato, attingendo ad ampie mani da altre discipline, come il teatro, la musica e il cinema, per citarne alcuni. Dal momento che l’espressione artistica vive di una relazione sempre più stretta con il contesto, inevitabilmente riecheggia quelle forme di produzione culturale che praticano la messa in scena e la reinterpretazione del reale, e nelle quali la partitura è il solo mezzo, insieme alla documentazione, a rendere possibile un continuum che sia autentico rispetto agli intenti dell’artista e lo rimanga anche secoli dopo. Non è così, però, che ha sempre funzionato l’arte, la cui economia si fonda sulla produzione e lo scambio di oggetti concreti. Questa apparente contraddizione ha prodotto interessanti esperimenti. Quando si cerca di conservare e preservare lavori che non sono stati immaginati come qualcosa da custodire nel tempo, appare chiaro che a volte l’oggetto è soltanto un residuo, che ha ormai cessato di essere il principale – o, se non altro, l’unico – strumento attraverso cui l’artista persegue il suo intento originale. E comunque, in un mondo sempre più disincarnato e nel quale il presente è un traguardo che si sposta di continuo, le tracce di questi gesti crescono di valore, come testimonianze di un tempo che non c’è più.
In questo contesto si inseriscono i quattro artisti le cui opere sono in mostra alla Fondazione Spinola Banna per l’Arte. Si tratta di quattro progetti decisamente diversi tra loro, che lavorano su quattro diverse idee di arte e di restituzione formale. Tutti e quattro, però, si interrogano a fondo su cosa possa essere reale. In che momento l’oggettività cede il passo alla soggettività? Quando la traccia di un’azione diventa più reale dell’azione stessa? Quando è che vivere un’esperienza diventa più importante del motivo per cui la si compie? In sostanza quello che conta è l’aspetto narrativo, capace di unificare quel reale e quell’immaginario che noi ancora ci ostiniamo a distinguere. Cos’altro significa, se no, “reality-tv”?!
La scultura di Caterina Rossato, nel parco, rimanda con evidenza ai lavori più noti della Land Art anni Settanta e Ottanta. Eppure quest’opera, più che citare, attinge agli aspetti formali di quei lavori per ipotizzare l’imminente atterraggio di extraterrestri, suggerendo a noi esseri umani di prepararci a un incontro di amicizia con queste creature che vengono dallo spazio. Viene qui messa in scena, in modo interessante, la dinamica sottesa a un mondo permeato in egual misura di immaginazione e rigorosa ricerca scientifica, una dinamica che suggerisce la necessità di calibrare ex novo la distribuzione dei pesi tra razionale e irrazionale, conoscenza scientifica e speculazione, senza per questo trascurare il dovere di dare una convincente restituzione formale.
Sempre in esterno si configura la performance in divenire di Andrea De Stefani. Negli scorsi mesi l’artista ha scelto questo spazio defilato per esercitarsi con il sassofono, mosso dal semplice piacere di suonare, senza imporsi un obiettivo di apprendimento. In questo caso, lo scarto tra ciò che sappiamo e ciò di cui siamo convinti, così come la scelta di puntare sulla narratività invece che sull’abilità tecnica (suonare uno strumento), potrebbero essere interessanti metafore per evocare gli slittamenti di senso intercorsi nel fare arte. Sembrerebbe qui in ballo la questione se l’artista debba o no padroneggiare una tecnica, se ciò che conta davvero sia invece la tensione verso un obiettivo artistico, ma si tratta anche di capire cosa è un gesto effimero e cosa la sua documentazione, cosa significano e in che relazione stanno tra loro. La performance avrà luogo la sera dell’inaugurazione, poi ne resterà soltanto una fotografia ricordo, che andrà ad aggiungersi ad una serie già avviata e presente in mostra, incorniciata in una intelaiatura nera.
Valentina Rosselli ha intrapreso un interessante viaggio verso l’Africa, dopo avere scoperto che anche lì esiste un posto chiamato Banna. Questo spostamento attraverso lo spazio si è sviluppato in un progetto che mette insieme differenze e somiglianze e che si materializza in una meticolosa documentazione del lavoro via via compiuto, come volesse collegare due realtà sulla base di una improbabile omonimia.
La categoria della dislocazione può essere adottata per avvicinarsi anche all’esperimento tentato da HR-Stamenov. Nel piccolo spazio da lui scelto per il suo progetto, l’artista ha installato un dispositivo incredibilmente semplice che ricrea le condizioni percettive di una tempesta. Viene immediato pensare a come il teatro, combinando elementi base quali la luce e il suono, ha sempre cercato di ricreare la realtà. Se però di solito condizioni metereologiche avverse servono a rafforzare la componente drammatica di una storia, qui del racconto abbiamo solo un frammento. Tocca allo spettatore immaginare tutto il resto.
Questi quattro lavori presi insieme offrono un’interessante panoramica sul modo in cui una nuova generazione di artisti sta cercando di affrontare l’attuale contesto culturale. Vediamo quanto rispetto ci sia per la pratica artistica dei decenni passati, in che modo nel 2010 – per citare una recente affermazione di Harald Szeeman – “L’attitudine diventa forma”, e come questa generazione di artisti sia profondamente legata all’approccio di quella che l’ha preceduta, pur essendo, allo stesso tempo, profondamente radicata nell’oggi e nelle sue circostanze.

MOSTRA ANNUALE 2010
a cura di Benjamin Weil
Inaugurazione domenica 24 ottobre alle ore 12
dal 25 ottobre al 14 novembre 2010
venerdì / sabato / domenica dalle ore 15.00 alle ore 17.00 - Ingresso libero

Estratto video della mostra annuale 2010

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