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Diego Perrone

Il workshop di estate 2007 ha visto in qualità di master Diego Perrone (Asti 1970), artista sicuramente tra i più interessanti della sua generazione, la prima, dopo i fasti dell’Arte Povera e della Transavanguardia, ad avere avuto una coerente e approfondita circuitazione a livello internazionale.

Individualità isolata, difficilmente riconducibile fino in fondo ad un gruppo o ad una corrente, Diego Perrone si è da subito imposto agli occhi della critica specializzata e dei collezionisti più attenti come artista dalle ampie visioni e dalla poetica rigorosa e affascinante. Capace di coniugare con estrema libertà tecniche espressive diverse e intuizioni poetiche inedite, Perrone può essere avvicinato all’ambito neo-concettuale, che sa però attualizzare con un robusto impianto di tecniche e metodologie tradizionali, dalla pittura, al disegno, alla scultura. I suoi lavori, fin dagli esordi, si distinguono per un’intelligente rilettura di temi ed icone tradizionali, tratte tanto dalla cultura popolare, che dalla memoria storica più recente. Ne è testimonianza, ad esempio, La fusione della campana, 2005, che, partendo da una riflessione su una delle tecniche di fusione più antiche, quale la lavorazione del metallo nella costruzione delle campane, lo ha condotto ad esiti del tutto inaspettati e di estrema modernità, sia formale, che concettuale. Lo stesso si può affermare di alcuni suoi lavori video, primo fra tutti Totò nudo, 2005, (presentato in occasione della sua personale alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo), sofisticata rielaborazione in chiave digitale di un simbolo celeberrimo della nostra cultura popolare, distillato però in un precipitato di grande poesia, libero dai clichè e da ogni manierismo. I video di Diego Perrone, nessuno escluso, hanno proprio questo in comune: la capacità di fare riflettere, di trasformare la superficialità in profonda malinconia e l’ovvietà in sorpresa, si tratti del ritratto dolente di un cane che muore (Vicino a Torino muore un cane vecchio, 2003, visto alla 50° Biennale di Venezia dello stesso anno), o dei giochi, venati di perfidia di un gruppo di bambini al parco. Questo spostamento del significato, tramite l’attenta rielaborazione degli elementi significanti (vedi uno dei suoi primi lavori I cento re che ridono, del 1999), si è via via radicalizzato, giungendo ad esiti, specie nelle sue opere più recenti, quasi di matrice surrealista, come testimonia la spaventosa macchina celibe di The first dad turns around with his own shadow. The mother bends her body in search of a shape. The second dad pounds his fist on the floor (1° Biennale di Berlino del 2006), o l’intero ciclo dei Pensatori di buchi, gruppo di opere del 2002, che da un originario impianto performativo, giunge al radicale straniamento dei gesti e delle situazioni.

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